Una storiaccia frutto di errori tecnici, regolamenti oscuri, giurisprudenza contraddittoria, che rischia di trasformarsi in una bomba sociale, visto che riguarda nella sola Roma circa 200 mila immobili, oltre 400 mila famiglie – un romano su sette – e che presto potrebbe travalicare i confini dell’Urbe.
In estrema sintesi è successo questo: per anni il Campidoglio ha concesso terreni a basso costo alle cooperative affinché costruissero palazzi da vendere a prezzi calmierati ai ceti medi. Su quegli appartamenti, però, esistevano dei vincoli, sia di accesso al bene (reddito, nucleo familiare ecc…), sia sui prezzi di vendita (il prezzo massimo di cessione), tutte norme contenute nelle convenzioni stipulate tra Comune e costruttori. In realtà, molti acquirenti quelle convenzioni non le hanno mai neanche lette, l’unico vincolo chiaro a tutti era che chi comprava poteva rivendere le case a prezzi di mercato solo una volta trascorsi cinque anni dalla prima vendita.
E così molti hanno fatto: passato il quinquennio, le hanno rivendute a prezzi maggiorati. I più scrupolosi, prima del rogito, hanno anche chiesto e ottenuto dal Comune di Roma il nullaosta alla cessione. Un attestato che la vendita non andava contro i dettami delle convenzioni, perché quelle convenzioni erano scadute. Non solo, agenzie immobiliari, notai e istituti di credito hanno trovato acquirenti, firmato atti, redatto rogiti e concesso mutui senza mai sollevare alcun dubbio.
Nel 2011 però lo Stato, in piena crisi dello spread, con la legge n.106 ha introdotto per questa tipologia di edilizia l’istituto dell’affrancazione: il proprietario avrebbe potuto alienare l’appartamento a prezzo di mercato solo se prima avesse versato una certa somma al Comune con un atto pubblico. Una sorta di “rimborso” non eccessivamente oneroso, circa il 5% del prezzo di mercato.
Tuttavia, se lo Stato prevede l’affrancazione, significa che il vincolo del prezzo massimo di cessione non era venuto meno allo scadere dei 5 anni. Almeno così ha ritenuto la Corte di Cassazione a sezioni Riunite, chiamata nel 2015 a decidere sulla prima richiesta di rimborso da parte di un acquirente nei confronti del venditore. La Corte non ha annullato la compravendita, ma ha riconosciuto il diritto del compratore – entro 10 anni dal rogito – di riavere indietro dal venditore la differenza tra il prezzo massimo di cessione e quello di mercato. A volte cifre tutt’altro che simboliche: anche 300 mila euro.
Quella sentenza, divenuta tristemente famosa come la 18135 del 16 settembre 2015, è stata una porta aperta sull’inferno, con sommo piacere degli avvocati. La voce è corsa talmente veloce, che alcune settimane fa nel parcheggio Ikea di Anagnina sono comparsi volantini che recitavano: “Hai acquistato una casa in edilizia convenzionata? Forse non sai che esiste un prezzo imposto dalla legge e hai diritto di richiedere la differenza di prezzo pagata in più… Fino a 300 mila euro!!! Contattaci”.
Per Luca Montuori, assessore all’urbanistica del Comune di Roma, quella sentenza ha avuto “l’effetto non previsto di mettere i cittadini contro, creando contenziosi e nuovi indebitamenti fra le persone. Un patrimonio immobiliare nato a tutela delle fasce più deboli è diventato oggi oggetto di una vera e propria guerra tra poveri e questo è inaccettabile”.